
PENSIERI SULL’AMORE DI DIO DI SANTA TERESA DI GESÙ: UN’INTRODUZIONE ALLA LETTURA
Presentazione
È un piccolo scritto di Teresa, composto a quanto sembra, fra gli anni 1571- 1573. Teresa non ha ancora scritto il suo capolavoro, Il castello interiore, ma in queste pagine se ne intuisce già il contenuto che attinge dalla sua esperienza quotidiana. È un mini-trattato di preghiera, sullo stile pedagogico della nostra S. Madre. Probabilmente sono state ancora le sue figlie e sorelle a ispirarne la composizione, chiedendo spiegazione su alcuni versetti della Sacra Scrittura che leggevano in latino nell’Ufficio divino. In particolare, il Cantico dei Cantici veniva letto nell’Ufficio della Madonna. La S. Madre non si è lasciata sfuggire l’occasione per una delle sue libere e liberanti interpretazioni spirituali della Parola di Dio applicandola alla quotidianità delle sue monache. Pare ovvio che il Cantico del Cantici abbia attirato l’attenzione di Teresa e delle sue figlie, chiamate nel Carmelo a contentare il loro Signore (P 7,8), loro Sposo, attraverso una vita di fraternità, orazione e solitudine. Teresa scrive avendo già gustato le esigenze e la tenerezza del matrimonio spirituale e con queste poche pagine intende illustrarne i frutti: le opere che fioriscono dall’unione con Dio, i fiori usciti e sbocciati sull’albero di un così intenso amore – l’albero della croce – hanno un profumo che dura a lungo. Giova di più un’anima sola di queste con le sue parole ed opere, che non un gran numero di altre, le cui opere siano frammiste alla polvere della loro sensibilità o di qualche loro interesse (P 7,7).
La lectio divina di Teresa
Teresa è stata molto ardita nel commentare questo libro della Sacra Scrittura: a proposito l’Inquisizione spagnola si mostrava molto severa con gli uomini… figuriamoci con le donne! In ogni caso Teresa non si lascia defraudare del diritto e della consolazione (P prologo,1) di pregare la Parola di Dio che gustava nella liturgia. L’opera è un esempio illuminante di come la preghiera personale di Teresa scaturisca dalla fonte viva della Liturgia celebrata comunitariamente nei suoi monasteri. Anche l’orazione teresiana, in quanto vera preghiera cristiana, si nutre della Parola pur non essendo più la tipica lectio divina medioevale, ma attingendo ancora abbondantemente da essa con criteri di interpretazione più spirituale che esegetica. L’orante Teresa si pone davanti alle parole del Cantico cercando un rapporto vivo con la Parola–Cristo in vista dell’orazione – rapporto di intima e vicendevole amicizia – per la quale Dio guida le monache mie sorelle di questi monasteri (P prologo, 3). Teresa non ha mai altra finalità che questa.
Ci dona dei criteri di “ermeneutica” della Parola. Innanzi tutto la Parola va “incontrata”: dobbiamo cercarvi una Persona vivente. Non capiremo sempre tutto e di questo non dobbiamo inquietarci (cfr P 1,2). Teresa, nella sua semplicità e con i poveri mezzi di cui disponeva, propone una preghiera affettiva più che un’analisi intellettuale del testo. Nella Parola ha trovato la chiave di svolta di tutta la sua relazione con Dio: Gesù-mediatore attraverso sua Umanità Santissima. È di lui che ci parlano le Scritture (cfr. Lc 24, 27). Pur essendo figlia del suo tempo, ma ricercatrice ansiosa della verità, Teresa critica un certo devozionalismo che da sempre ha cercato di allontanare la spiritualità dalla Parola di Dio e invita le sua monache a curarsi di approfondire i grandi misteri che lo Spirito ha racchiuso nelle Parola (P 1,4) invece che andare dietro, anche nella libertà della preghiera personale, ai propri pensieri.
Le sue parole son un mezzo efficacissimo per innamorarsi dell’Umanità di Cristo. Invita a fare questo passaggio: dall’ascolto allo sguardo, dalla meditazione alla preghiera contemplativa. Guardate le sue parole che cadono dalla sua bocca divina e comprenderete fin dalla prima di quale amore vi circonda (CP 26,10). Il primo capitolo è tutto orientato a questo incontro tra l’orante e Cristo-Sposo che vedendo che prendiamo diletto nella considerazione delle sue parole e delle sue opere, ne avrà piacere (P 1,8). Teresa ci dice che Cristo è come un sovrano che vuole dispensare i suoi doni a noi che siamo come poveri pastorelli e già dal primo capitolo ci annuncia gioiosamente il suo “evangelo”, la sua buona notizia: Dio, trovando anime disposte, non vorrebbe far altro che donare (P 6,1.9.12). Questo è il grande bene di cui lei reclama il diritto di godere accostandosi con libertà alla Sacra Scrittura (P 1,8).
È molto bello anche l’accostamento che Teresa fa tra Parola di Dio ed Eucarestia: nel Sacramento lo Sposo è reso “muto” dalla poca fede di chi lo riceve (P 1,11) ma è così anche per la Parola quando non la si ascolta con il cuore aperto all’amicizia con Colui che è la Parola stessa, il Verbo incarnato.
Teresa cerca nella Scrittura una conferma dell’esperienza che ha fatto con il suo Dio, leggendo nella storia di salvezza del popolo di Israele la sua personale storia di salvezza. Per questo interpreta il bacio che la sposa chiede allo Sposo come quella strettissima unione che Dio ha attuato col farsi uomo: cioè l’amicizia da Lui contratta col genere umano, dato che il bacio è un chiaro segno di pace e di grande amicizia fra due persone (P 1,10). Partendo dal dato rivelato dell’Incarnazione, fondamento della possibilità donata all’uomo di fare esperienza di Dio, di essere chiamato “amico” da Lui, comunica la sua personale avventura di amicizia con Gesù, vero Dio e vero uomo.
Discernimento e conoscenza di sé
Teresa ha detto che il bacio è segno di pace e di amicizia. Prendendo spunto da questa interpretazione comincia a descrivere i diversi tipi di falsa pace che l’anima può conoscere. È sempre molto preoccupata che l’orante cammini nella verità di se stesso per poter accogliere la verità di Dio. Questa è la bussola che permette di “viaggiare” all’interno del castello interiore (cfr I Mans 2,9), il pane con cui si devono mangiare tutti i cibi (V 13,15). È il fondamento della vita di orazione, esercizio di umiltà perché l’umiltà è verità (VI Mans 10,7).
La prima pace di cui ci parla Teresa è l’assopimento della coscienza circa i difetti leggeri che impediscono il dono totale di sé all’Amico. La santa non è una scrupolosa ( cfr P 2,6) e teme le anime “infeltrite”, insegna invece una via in cui l’anima possa camminare con allegrezza e libertà di spirito (V 13,1). Teme però le anime superficiali, quelle che si fidano di sé stesse e di conseguenza sono poco vigilanti (V 13,2). Non chiede sforzi ascetici titanici, né un perfezionismo esasperato che è ripiegamento su di sé, ma l’umile conoscenza di se stessi per cui semplicemente riconosciamo la nostra miseria, ce ne pentiamo, riconosciamo di aver sbagliato (P 2,2) e con filiale confidenza riprendiamo il cammino. Richiama alle sue figlie il tema, caro alla spiritualità monastica di ogni secolo, della vigilanza (P 2,2).
Teresa è un tipo molto incarnato e sa che non è possibile essere angeli quaggiù (P 2,3), perciò teme chi è continuamente in pace, senza lotte interiori, perché potrebbe essere in preda a un’illusione. Non c’è vita di orazione senza realismo: per questo Teresa afferma che in fatto di perfezione avanzano assai di più le anime che han da combattere, nonostante la loro orazione possa essere meno elevata (P 2,3).
Una seconda pace è quella che deriva dal possedere. È la falsa pace delle ricchezze materiali e spirituali, come la stima degli altri, gli onori, le lodi. Ancora una volta Teresa fa eco alle Beatitudini (cfr. Mt 5,3) di Gesù: Ringraziate Sua Maestà che vi ha voluto povere, riconoscendo in ciò una sua grazia particolare (P 2,8). Non avere ci pone in uno stato di insicurezza, ma ci fa assomigliare a Gesù, abbandonato alla Provvidenza del Padre.
La falsa pace della carne è quella che scaturisce dall’accontentare in tutto le esigenze del nostro corpo, oggi si potrebbe dire da un salutismo esagerato. Teresa non si sofferma troppo sui tranelli di questa carne molto bugiarda (P 2,15) e come rimedio ci pone di fronte la carne del Signore Gesù nella sua passione e l’obbedienza ai superiori, infatti nella dimenticanza di sé intravede la possibilità di acquistare una vera libertà interiore.
Per riconoscere le false paci occorre conoscere la vera pace. Il discernimento ha sempre come punto di riferimento, di arrivo e di partenza, un valore che ci trascende, che ci supera e ci attrae. Da un valore oggettivo soggettivamente accolto possono scaturire le opere come dall’albero buono del vangelo i frutti buoni. Per questo Teresa si raccomanda che le anime di preghiera abbiano grandi desideri: I vostri pensieri siano sempre generosi, ed otterrete da Dio che tali si facciano pure le opere. Questo è assai importante (P 2,17). E continua: In mancanza di opere grandi, siano almeno grandi i desideri (P 2,29; cfr. V 13,2). È assai triste e desolante accontentarci di poco e non arrivare per colpa nostra a così alta amicizia che ci viene offerta (P 2,16). Teresa propone un cammino di consapevolezza di sé e di formazione sui valori, in modo che il desiderio dell’orante si dilati ad accogliere Dio stesso che non vorrebbe far altro che donare (P 6,1.9.12) fino a donarci l’amicizia di suo Figlio. Senza grandi ideali sarà misera anche la nostra risposta e cammineremo per la via della santità a passo di gallina (V 13,5). Il grande ideale per Teresa è il Cristo crocifisso su cui ci chiede di fissare lo sguardo. Sarà poi Dio stesso, che non si fa vincere in generosità, che non si contenta di proporzionare i suoi doni ai nostri modesti desideri (P 6,1; 5,6) e le dilata il cuore, a disporla per accogliere grazie sempre più grandi, aumentando le sue forze e associandola alla croce di suo Figlio. Questo è ciò che Dio Padre vuole donare alla Sposa di suo Figlio. Ecco la vera pace che deve desiderare: una stretta amicizia con Cristo (P 4, 1.3) che si manifesta prima che nella quiete e dolcezza che accompagna la preghiera, nell’unione delle volontà: un’amicizia così intima da non più avere tra loro alcuna cosa divisa.
Ostacolare il donarsi di Dio…
Sì, l’anima può porre ostacoli al donarsi di Dio. Come? Il pericolo più grande è la sfiducia in se stessi, il non credersi destinatari di un amore così grande, gratuito, disinteressato. Se la fiducia non prevale sulle nostre paure saremo bloccati dalla nostra stessa debolezza. Teresa sa che siamo deboli e non se ne preoccupa perché la carne deve fare il suo ufficio. Nel suo grande realismo però non si ferma a guardare se stessa ma volge lo sguardo sull’Umanità di Cristo e non si scandalizza della sua stessa debolezza. In Lui scopre anche la via di uscita: unire la nostra volontà a quella di Dio (P 3,10). Non dobbiamo avere paura della paura ci dice Teresa, se la attraversiamo con Gesù. La nostra debolezza deriva dall’appoggiarci su di noi: la vera umiltà è appoggiarci sulla misericordia di Dio (P 3,12).
Il mio Diletto a me e io al mio Diletto
Con queste disposizioni Dio può davvero donarsi e i capitoli quarto, quinto e sesto parlano dell’amicizia che lo Sposo dona alla sposa: Teresa anticipa una descrizione delle stanze dell’orazione contemplativa del Castello interiore. Il linguaggio è infuocato, Teresa fa esperienza di un Dio che nella sua condiscendenza vuole aver bisogno di noi (P 4,10), della nostra risposta, della nostra amicizia. Un Dio che, se accolto, si comunica a noi incessantemente in molte e diverse maniere (P 5,5) che non può rifiutarsi di donare se stesso a chi del tutto si dà a lui (P 6,9).
L’ultimo capitolo parla dei frutti dell’unione tra l’anima e il suo Dio: frutti di carità, di servizio a Dio e al prossimo (P 7,3) rinunciando anche alle delizie sperimentate per il bene delle anime. Marta e Maria (Lc 10,38-42) vanno d’accordo e le opere sgorgano da un cuore pacificato in questa unione di volontà. Queste anime sono apostoliche per essenza, perché le loro anime sono marchiate dalla gratuità: il solo interesse del prossimo e nient’altro (P 7,5). Siamo al cuore del vangelo.
È la tappa finale dell’identificazione piena con il Figlio seguito anche nella sua passione, l’identificazione con la sua passione d’amore per la salvezza delle anime per cui più un’anima è innanzi e inondata di maggiori delizie e più si consacra ai bisogni del prossimo, pronta anche a sacrificare mille vite pur di trarne una sola dal peccato mortale (P 7,8).